Fermo restando che lo statuto delle società in house esclude l’alterità patrimoniale tra società e amministrazione pubblica, risponde a titolo di responsabilità erariale l’amministratore unico di una società in house che, con comportamenti illegittimi, determina il depauperamento del patrimonio sociale e, quindi, del valore della partecipazione detenuta dal comune, ente pubblico controllante: è quanto evidenziato dalla Corte dei conti, sez. giurisd. reg. Umbria, nella sent. n. 51/2024, depositata il 28 novembre 2024.
L’amministratore aveva capitalizzato costi di esercizio sostenuti nei vari anni per il pagamento di salari e stipendi, servizi di pulizia, consulenze da lui stesso rese, spese per organizzazione di mostre ed eventi per conto del Comune, che sono lievitati negli anni, tutti imputati artificiosamente alla voce immobilizzazioni immateriali dell’attivo patrimoniale come se fossero pertinenti a progetti di ristrutturazione aziendale e di ricerca e sviluppo, ma che invece non esistevano nella realtà. Nelle note integrative il medesimo amministratore accennava genericamente ad investimenti effettuati in termini di accrescimento e riorganizzazione societaria non meglio identificati. mentre il revisore aveva espresso preoccupazione sempre maggiore a causa dell’incremento in progressione geometrica di questa voce dell’attivo patrimoniale.
Secondo i giudici, dietro questo importo, in realtà, non c’era nessuna creazione di beni ad utilità pluriennale, bensì soltanto la finalità di rinviare al futuro costi di esercizio che avrebbero pesato sui risultati del conto economico dei vari anni per centinaia di migliaia di euro di perdite di esercizio da ripianare. L’operato dell’amministratore ha violato il principio di competenza fissato dall’art. 2423-bis, primo comma, n. 3, del c.c. rappresentando un aliud pro alio, vale a dire la realizzazione con risorse ad hoc di un bene dell’attivo patrimoniale della società che non esisteva nella realtà, al posto di costi di esercizio che avrebbero dovuto confluire nel conto economico e così determinare cospicue perdite di esercizio; non si è trattato, perciò, di errori di valutazione discrezionale, ma di alterazioni della realtà gestionale e di rappresentazioni in bilancio di fatti materiali rilevanti non rispondenti al vero.
L’amministratore, ancora:
- per un triennio aveva omesso di calcolare gli ammortamenti delle immobilizzazioni materiali in considerazione dello scarso utilizzo dei beni, così violando l’art. 2426, primo comma, n. 2, c.c.; laddove, invece, le quote di ammortamento dei costi di tali immobilizzazioni fossero state contabilizzate nei conti economici degli esercizi di competenza, come prescritto dalla legge, le perdite sarebbero state ancor più consistenti;
- aveva esposto nella voce crediti commerciali dell’attivo patrimoniale importi che si sono rivelati privi di consistenza, in quanto relativi a crediti di fatto inesistenti;
- aveva conteggiato le rimanenze finali di magazzino della farmacia, dei musei e della liuteria valutandole in base al prezzo di vendita corrente, invece che secondo il costo di acquisto, come previsto dall’art. 2426, primo comma, n. 9, c.c. e dal principio contabile nazionale O.I.C. n. 13, violando apertamente i principi di prudenza e di competenza economica previsti dall’art. 2423-bis, primo comma, nn. 1, 2 e 3, c.c.; in questo modo, l’amministratore aveva sopravalutato i componenti positivi di reddito;
- aveva presentato all’assemblea dei soci note integrative in cui attestava che il bilancio era stato redatto in conformità agli artt. 2423 e seguenti del codice civile e che erano state rispettate la clausola generale di formazione del bilancio (art. 2423 c.c.), i suoi principi di redazione (art. 2423 bis c.c.) ed i criteri di valutazione stabiliti per le singole voci (art. 2426 c.c.).