La concessione di un immobile di proprietà dell’ente comunale ad uno studio medico associato ad un corrispettivo inferiore a quello di mercato giustificato dal fatto di incrementare la presenza di medici di medicina generale sul territorio e di rendere maggiormente fruibile il servizio da parte dei soggetti fragili deve sottostare ad una rigorosa valutazione in termini di bilanciamento degli interessi pubblici in gioco ed in particolare quello volto a garantire un’economica, trasparente ed efficiente gestione del patrimonio pubblico e quello del perseguimento di un interesse pubblico indiretto, ex art. 13 del TUEL, quale quello afferente ai servizi di medicina generale: è il principio di diritto espresso dalla Corte dei conti, sez. reg. di contr. Lombardia, nella delib. n. 234/2024/PAR, depositata il 18 novembre 2024.
Nel caso specifico, il sindaco di un comune ha chiesto ai giudici se potesse ritenersi legittimo il provvedimento di concessione in uso di un immobile di proprietà dell’ente ad un canone inferiore a quello di mercato – finanche concedendolo gratuitamente – ad uno studio medico associato in cui operano prevalentemente medici convenzionati con il Servizio Sanitario Nazionale. La ragione sottostante ad una rinuncia parziale (o finanche totale) del reddito, che potrebbe produrre l’immobile in questione era da ricondurre al perseguimento dell’interesse pubblico volto ad incrementare la presenza di medici di medicina generale sul territorio e di rendere, quindi, maggiormente fruibile il servizio a vantaggio della cittadinanza, con particolare riferimento ad anziani e persone limitate negli spostamenti.
La Corte ha ricordato che costituisce principio ben noto quello inerente al fatto che la gestione dei beni pubblici deve essere ispirata al rispetto dei principi di economicità, efficienza, adeguatezza e proporzionalità (v. a tal fine, artt. 119, commi 1 e 6, 97 della Costituzione). L’Ente, peraltro, è tenuto ad adottare apposita delibera dell’organo di governo, da allegare al bilancio di previsione, volta alla individuazione del proprio patrimonio e alle modalità di gestione e di valorizzazione del proprio patrimonio immobiliare (art. 58 del decreto-legge n. 112/2008, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 133/2008).
Una gestione economica del proprio patrimonio immobiliare, in considerazione anche degli inevitabili oneri di manutenzione ordinaria e straordinaria cui occorre far fronte, comporta che la rinuncia, totale o parziale, alla fonte di reddito producibile dal bene possa ritenersi non coerente con le finalità del bene, posto che non recherebbe alcuna entrata all’ente (v. sez. reg. di contr. Lombardia, delib. n. 164/2019/PAR e delib. n. 87/2024/PAR).
Tale affermazione trova conferma nelle numerose disposizioni normative succedutesi nel corso degli ultimi anni (seppur in modo non esaustivo, vedasi art. 9 della Legge n. 537/1993, art. 32, comma 8, della Legge n. 724/94, art. 12 della Legge n. 127/97, art. 19 della Legge n. 448/98, art. 3 bis del decreto-legge n. 351/2001, convertito dalla Legge n. 224/2001, art. 7 del decreto-legge n. 63/2002, convertito dalla Legge n. 112/2002, art. 58 del decreto-legge n. 112/2008, convertito, con modificazioni, dalla Legge n. 133/2008) tutte accomunate dal fatto che, tenuto conto della nota scarsità delle risorse pubbliche, la gestione economica del patrimonio immobiliare deve essere volta alla valorizzazione o dismissione dei beni pubblici le cui correlate entrate – di natura corrente ovvero di natura straordinaria – debbono concorrere all’equilibrio del bilancio, sia di parte corrente che di parte capitale.
Occorre, inoltre, rammentare che l’art. 2 lettera h) dell’Allegato I.1 al d.lgs. n. 36/2023 definisce “contratti attivi” quelli da cui non deriva una spesa bensì un’entrata per la pubblica amministrazione; la stipula di tali contratti, ossia quelli che offrono opportunità di guadagno economico, avviene tenendo conto dei principi di cui agli articoli 1, 2 e 3 del codice dei contratti (art. 13 comma 5 del Codice), sicché anche per tali affidamenti devono trovare applicazione i principi del d.lgs. n. 36/2023 riguardanti il “risultato” (art. 1), la “fiducia” (art. 2) e l’“accesso al mercato” (art. 3), affinché siano garantite la concorrenza, l’imparzialità e la non discriminazione degli operatori (v. TAR Lombardia, Milano, sez. II, sent. 10 ottobre 2024, n. 2628).
Devono, pertanto, ritenersi deroghe di stretta di interpretazione quelle che prevedono di prescindere dal conseguimento di un’entrata patrimoniale commisurata al valore di mercato, quali, ad esempio, quella prevista dall’art. 1, comma 439, della legge n. 311/2004, la quale prevede che le Regioni e gli Enti locali possano concedere alle Amministrazioni dello Stato, per le finalità istituzionali di queste ultime, l’uso gratuito di immobili di loro proprietà, ovvero quella prevista dall’art. 71, comma 2, del decreto legislativo n. 117/2017 – Codice del Terzo Settore –, secondo cui: “Lo Stato, le Regioni e Province autonome e gli Enti locali possono concedere in comodato beni mobili ed immobili di loro proprietà, non utilizzati per fini istituzionali, agli enti del Terzo settore, ad eccezione delle imprese sociali, per lo svolgimento delle loro attività istituzionali. La cessione in comodato ha una durata massima di trent’anni, nel corso dei quali l’ente concessionario ha l’onere di effettuare sull’immobile, a proprie cura e spese, gli interventi di manutenzione e gli altri interventi necessari a mantenere la funzionalità dell’immobile”.
Occorre, altresì, aggiungere che la concessione in uso “sostanzialmente” gratuito del bene pubblico deve essere qualificata quale attribuzione di un vantaggio economico a favore di un soggetto privato – quale sarebbe, nel nostro caso, lo studio medico associato – ed in quanto tale ricadrebbe nell’applicazione dell’art. 12 della Legge n. 241/90, il quale dispone che: “1. La concessione di sovvenzioni sussidi ed ausili finanziari e l’attribuzione di vantaggi economici di qualunque genere a persone ed enti pubblici e privati sono subordinate alla predeterminazione da parte delle amministrazioni procedenti, nelle forme previste dai rispettivi ordinamenti, dei criteri e delle modalità cui le amministrazioni stesse devono attenersi.
- L’effettiva osservanza dei criteri e delle modalità di cui al comma 1 deve risultare dai singoli provvedimenti relativi agli interventi di cui al medesimo comma 1”. (v. a tal fine, sez. reg. di contr. Lombardia, delib. n. 262/2012/PAR e n. 87/2024/PAR).
Il principio generale, recato dall’art. 12 della legge 241/1990, secondo il quale criteri e modalità di attribuzione di vantaggi economici a terzi devono essere predeterminati e resi pubblici in un regolamento, è finalizzato ad evitare ingiustificate discriminazioni e a garantire la trasparenza dell’azione amministrativa (Sezione regionale di controllo Veneto, n. 260/2016/PAR); sarà l’amministrazione, quindi, che nell’esercizio del proprio potere discrezionale, deciderà come ed in quale misura autovincolarsi, stabilendo le regole a presidio del futuro esercizio della potestà di riconoscere vantaggi a terzi.
Occorre, altresì, precisare che l’art. 26 del d.lgs. 33/2013 dispone espressamente che le amministrazioni devono pubblicare, in Amministrazione Trasparente:
- i provvedimenti a carattere regolamentare con i quali sono determinati criteri e modalità per l’attribuzione di sovvenzioni, contributi, sussidi, ausili finanziari e vantaggi economici di qualunque genere a persone ed enti, sia pubblici che privati;
- i singoli provvedimenti di assegnazione di sovvenzioni, contributi, sussidi, ecc. di valore superiore ai 1.000 euro, nel corso dell’anno solare al medesimo beneficiario. La pubblicazione in Amministrazione trasparente è “condizione legale di efficacia” dei suddetti provvedimenti (art. 26, co. 3).
Posto tutto ciò, la questione posta dal comune, secondo la Corte, deve essere risolta facendo applicazione del ben noto principio del bilanciamento fra principi, ossia tra quello rinvenibile nelle disposizioni su citate, che impone una gestione economica del patrimonio pubblico, e quello (peraltro, solo in senso lato riconducibile al comune) afferente all’erogazione dei servizi del Servizio Sanitario Nazionale – ed in particolare quello afferente al servizio di medicina generale ex artt. 33, 117, comma terzo della Costituzione, art. 48 della Legge n. 833/1992 e art. 8 del decreto legislativo n. 502/1992 – in condizioni di parità ed eguaglianza dei cittadini.
Nel caso concreto, il servizio di medicina di base potrebbe essere erogato a condizioni migliori per la collettività, ed in particolare per le persone fragili appartenenti alla comunità amministrata e nell’ottica di un incremento della presenza dei medici di medicina generale, mettendo a disposizione di uno studio medico associato – composto prevalentemente da medici di medicina generale – un immobile di proprietà del Comune ad un prezzo irrisorio, finanche gratuitamente, ovvero ad un prezzo sensibilmente inferiore a quello di mercato. Il bilanciamento dei principi ed il correlato test di proporzionalità in senso stretto, superato quello dell’adeguatezza della misura adottata e la sua insostituibilità con misure meno incisive, appartiene esclusivamente all’Ente istante, il quale dovrà attentamente valutare se, nel perseguimento di un interesse pubblico, peraltro, non proprio ma della comunità amministrata ex art. 13 del TUEL, con contestuale rinuncia ad un’entrata patrimoniale – con riflessi, quindi, sul proprio equilibrio finanziario – e ad una gestione efficiente ed economica del proprio patrimonio pubblico, i vantaggi possano ritenersi superiori rispetto alle rinunce, certe e quantificabili, di future entrate patrimoniali. Dei vantaggi e dei risultati comparativamente maggiori della scelta adottata l’Ente dovrà dare adeguata motivazione e dimostrazione – v. a tal fine, sez. reg. di contr. Veneto, delib. n. 33/2009/PAR e delib. n. 716/2012/PAR.