Come è noto, il danno all’immagine della P.A. è espressamente disciplinato dalla Legge n. 20/1994, il cui art. 1, comma 1-sexies, ha previsto che “Nel giudizio di responsabilità, l’entità del danno all’immagine della pubblica amministrazione derivante dalla commissione di un reato contro la stessa pubblica amministrazione accertato con sentenza passata in giudicato si presume, salva prova contraria, pari al doppio della somma di denaro o del valore patrimoniale di altra utilità illecitamente percepita dal dipendente”.
Secondo quanto evidenziato recentemente dalla Corte dei conti, sez. giurisd. Lazio, nella sent. n. 1/2024, depositata lo scorso 3 gennaio, il danno all’immagine è intrinsecamente connesso, quale requisito di diritto, alla condanna dell’imputato in via definitiva e non alla prescrizione del reato, pur accertato in primo grado. Pertanto, il giudice contabile non può non tener conto della prescrizione, che va ad incidere sull’azionabilità parziale e sulla correlata quantificazione del danno all’immagine, che non può essere azionato per la parte relativa all’estinzione intervenuta per prescrizione del reato.
A supporto motivazionale può richiamarsi quanto affermato proprio di recente con la citata sentenza della Corte Costituzionale (sent. n. 123/2023) che ha ritenuto non fondate le censure di illegittimità costituzionale in particolare in termini di irragionevolezza, riferite a norme dirette a porre limiti all’azionabilità del diritto al risarcimento del danno per lesione all’immagine della Pubblica Amministrazione, innanzitutto ribadendo che la scelta che presiede alla configurazione della responsabilità erariale è “costituzionalmente legittima proprio evidenziando che, per i pubblici dipendenti, la responsabilità per il danno ingiusto può essere oggetto di discipline differenziate rispetto ai principi comuni in materia”.
Il giudice delle leggi ha specificato inoltre, che “Il giudizio proprio del proscioglimento adottato ex art. 129, 2 comma, cod. proc. pen. – il quale prevede che, quando ricorra una causa di estinzione del reato, ma dagli atti risulti evidente che il fatto non sussiste o che l’imputato non lo ha commesso o che il fatto non costituisce reato o non è previsto dalla legge come reato, il giudice pronuncia sentenza di assoluzione o di non luogo a procedere con la formula prescritta – presuppone, come emerge dal tenore testuale della norma codicistica appena riportata, l’evidenza della prova della non colpevolezza dell’imputato, che deve emergere dagli atti, in modo a tal punto incontestabile che la valutazione del giudice finisca per appartenere più al concetto di “constatazione”, ossia della percezione ictu oculi, che a quello dell’“apprezzamento”, nella incompatibilità con qualsiasi necessità di accertamento o di approfondimento (Corte di cassazione, sezioni unite penali, sentenza 28 maggio-15 settembre 2009, n. 35490). La pronuncia di estinzione del reato presuppone, invece, soltanto la mancanza di cause evidenti per pronunciare la formula di merito, ma risulta del tutto priva di un accertamento della effettiva colpevolezza dell’imputato. La pronuncia di estinzione non risulta, dunque, idonea a superare la presunzione di innocenza dalla quale quegli è assistito”.
Quindi, l’intervenuta prescrizione del reato assume rilievo determinante nelle fattispecie di danno all’immagine, escludendone in parte qua la azionabilità da parte della procura erariale, permanendo, per i motivi su esplicitati, la presunzione di innocenza, non essendo intervenuto un definitivo accertamento della colpevolezza del presunto reo.