Le vigenti norme sull’ordinamento finanziario degli enti locali esigono grande rigore in ordine alla gestione dei residui: è quanto evidenziato dalla Corte dei conti, sez. reg. contr. Marche, nella delib. n. 78/2022/PRSE, depositata lo scorso 28 giugno, stigmatizzando il comportamento dell’ente che ha mantenuto per anni un residuo attivo, salvo poi stralciarlo, senza fornire motivazioni sia per il mantenimento prolungato sia per la successiva cancellazione.
Sul tema, l’art. 228, comma 3, del TUEL (Decreto Legislativo n. 267/2000) indica che “Prima dell’inserimento nel conto del bilancio dei residui attivi e passivi l’ente locale provvede all’operazione di riaccertamento degli stessi, consistente nella revisione delle ragioni del mantenimento in tutto od in parte dei residui e della corretta imputazione in bilancio, secondo le modalità di cui all’art. 3, comma 4, del decreto legislativo 23 giugno 2011, n. 118”.
L’art. 3, comma 4, del Decreto Legislativo n. 118/2011 precisa che “Al fine di dare attuazione al principio contabile generale della competenza finanziaria enunciato nell’allegato 1, gli enti di cui al comma 1 provvedono, annualmente, al riaccertamento dei residui attivi e passivi, verificando, ai fini del rendiconto, le ragioni del loro mantenimento […] Possono essere conservati tra i residui attivi le entrate accertate esigibili nell’esercizio di riferimento, ma non incassate. […] Al termine delle procedure di riaccertamento non sono conservati residui cui non corrispondono obbligazioni giuridicamente perfezionate”.
È evidente, perciò, che un’adeguata attività di accertamento e un’accurata ricognizione dei residui dell’Ente sia imprescindibile per poter valutare puntualmente l’esigibilità dei crediti e, conseguentemente, avere una più attendibile rappresentazione delle risultanze della gestione.