Si ha colpa grave in caso di omesso riscontro ad un’istanza di conversione del rapporto di lavoro

Può rinvenirsi la colpa grave nel comportamento della funzionaria comunale che, essendo titolare dell’ufficio competente ad istruire la relativa pratica, ha completamente omesso qualsivoglia doveroso riscontro all’istanza di conversione del rapporto di lavoro, da part-time a tempo pieno, presentata da un dipendente del comune: è quanto affermato dalla Corte dei conti, sez. I giurisd. Centrale d’Appello, nella sent. n. 18/2023, depositata lo scorso 22 marzo.

Secondo i giudici, l’omessa risposta all’istanza – che richiedeva, in verità, un’attività vincolata da parte dell’ente – non poteva essere giustificata né dalle vicende personali del richiedente (che non possono esimere gli uffici procedenti dall’espletamento dei propri compiti istituzionali), né dai cambi di amministrazione che, invero, in nome della necessaria continuità dell’azione amministrativa, non possono essere invocati come valida esimente per l’applicazione di ordinarie competenze; al contrario, una più accurata attività interlocutoria e gestoria avrebbe consentito una più corretta valutazione dell’intera vicenda ed evitato il danno all’ente, conseguente alla sentenza del giudice del lavoro che aveva dato ragione al dipendente presentatore dell’istanza di conversione in discorso.

Ricordiamo che, in base alla recente sent. n. 13/2023 della Corte dei conti, sez. giurisd. per il Veneto, depositata lo scorso 16 marzo, la colpa grave, dal punto di visto dell’elemento psicologico, è delineata dalla giurisprudenza quale “negligenza intollerabile” o “trascuratezza imperdonabile” ai propri doveri di servizio, cioè il non aver osservato non tanto la diligenza “media”, quanto la diligenza “minimale” che nella stessa situazione era lecito attendersi anche dal soggetto meno preparato e meno scrupoloso (cfr. sez. gurisd. Piemonte, sent. 25 del 17 febbraio 2012; sez. giurisd. Abruzzo, sent. 376 del 17 ottobre 2012); deve, cioè, sussistere un atteggiamento di “grave disinteresse” nell’espletamento delle proprie funzioni, di “negligenza massima”, di “deviazione dal modello di condotta” connesso ai propri compiti, senza il rispetto delle “comuni regole di comportamento” e senza l’osservanza di un “minimo grado di diligenza” (sez. giurisd. Abruzzo, sent. 462 del 18 luglio 2006).

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