Come è noto, l’art. 1, comma 1-sexies, della legge n. 20/1994 (introdotto dalla legge n. 190/2012 in tema di misure anticorruzione), “Nel giudizio di responsabilità, l’entità del danno all’immagine della pubblica amministrazione derivante dalla commissione di un reato contro la stessa pubblica amministrazione accertato con sentenza passata in giudicato si presume, salva prova contraria, pari al doppio della somma di denaro o del valore patrimoniale di altra utilità illecitamente percepita dal dipendente”.
Come evidenziato dalla Corte dei conti, sez. giurisdizionale per la Regione Marche nella sent. n. 44/2022, depositata lo scorso 23 giugno, tale norma prevede due importanti ed indefettibili condizioni imperative per la contestazione di tale tipo di danno, le quali assurgono a vere e proprie condizioni cumulative e cioè che:
- il danno può derivare unicamente dalla commissione di un reato contro la stessa P.A.;
- tale reato sia stato accertato con sentenza passata in giudicato.
I giudici hanno anche ricordato che il danno all’immagine è conseguenza della condotta penalmente sanzionata del dipendente che viola in modo diretto e immediato il bene-interesse salvaguardato dal principio costituzionale di imparzialità e del buon andamento della pubblica amministrazione (art. 97, secondo comma, Cost.), il quale è declinato in termini di prestigio, credibilità e corretto funzionamento degli uffici pubblici (Corte dei conti, Sez. Riun., sent. n. 8/2015). Pertanto, tale norma costituzionale indica le modalità dell’azione della P.A. e quindi “l’immagine corretta” che l’ente pubblico deve mantenere agli occhi della comunità degli amministrati.
Se tale immagine della P.A. risulta distorta ed offuscata a cagione di comportamenti illeciti, si determina una violazione del diritto all’immagine, intesa come diritto al conseguimento, al mantenimento ed al riconoscimento della propria identità come persona giuridica pubblica e tale violazione è economicamente valutabile.