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Ennesimo colpo della Corte Costituzionale sulla rimodulazione dei piani di riequilibrio

di Francesco Cuzzola

 

 

Continuano le pronunce di illegittimità costituzionale delle norme che dilatano oltre i dieci anni i tempi di rientro dei disavanzi da piano di riequilibrio.

Il Legislatore, per soccorrere gli enti che si sono trovati in difficoltà a seguito della pronuncia n. 18/2020 della Corte Costituzionale, ha previsto, tramite l’art. 38 commi 2 bis e 2 ter del DL 30 aprile 2019, n. 34, la possibilità di riproporre il piano, contenente il ricalcolo complessivo del disavanzo già oggetto del piano modificato, entro il termine massimo di venti anni, nel rispetto della disciplina vigente, ferma restando la disciplina prevista per gli altri disavanzi. Il rimedio era stato pensato perché la sentenza 18/2019 aveva dichiarato la incostituzionalità dell’art. 1 comma 714 della Legge 28 dicembre 2015, n. 208, che consentiva agli enti, al ricorrere di alcune condizioni, di rimodulare o riformulare il piano di riequilibrio e di prevedere il recupero delle anticipazioni di liquidità correlate in un arco trentennale.

Adesso, con la sentenza n. 115 del 23 giugno 2020 la Corte Costituzionale dichiara illegittimo anche l’art. 38, comma 2-ter, del DL 30 aprile 2019, n. 34 (convertito, con modificazioni, nella Legge 28 giugno 2019, n. 58) per violazione degli artt. 81, 97 comma 1 e 119 comma 6 della Costituzione.

 

Gli Enti Locali che avevano approvato il piano di riequilibrio finanziario e pluriennale, ai sensi dell’arr. 243-bis del D. lgs. 267/2000 o che attendono la pronuncia dal Ministero e dalla Corte dei Conti dovranno fare i conti con una nuova rimodulazione dello stesso, che tenga conto degli effetti dalla sentenza in commento. Sarebbe auspicabile, in tal senso, un chiaro e incontrovertibile intervento normativo a livello centrale.

 

Per comprendere bene la portata della decisione è necessario un breve excursus normativo in materia di rimodulazione dei piani di riequilibrio finanziario pluriennale, strumento di risanamento degli enti locali previsto dall’art. 243 bis del TUEL (Decreto Legislativo n. 267/2000).

L’art. 1 comma 714 della Legge 28 dicembre 2015, n. 208, aveva consentito agli enti, al ricorrere di alcune condizioni, di rimodulare o riformulare il piano di riequilibrio e di prevedere il recupero delle anticipazioni di liquidità correlate in un arco trentennale. Detta disposizione è stata dichiarata incostituzionale dalla sent. n. 18/2020 della Corte, in quanto una così lunga durata si pone in contrasto con il principio di responsabilità politica degli amministratori locali di fronte ai propri elettori e con gli elementari principi di equità tra le generazioni presenti e future.

Il Legislatore, per soccorrere gli enti che si sono trovati in difficoltà a seguito della pronuncia n. 18/2020 della Corte, ha previsto, tramite l’art. 38 commi 2 bis e 2 ter del DL 30 aprile 2019, n. 34, la possibilità di riproporre il piano, contenente il ricalcolo complessivo del disavanzo già oggetto del piano modificato, entro il termine massimo di venti anni, nel rispetto della disciplina vigente, ferma restando la disciplina prevista per gli altri disavanzi.

Secondo i giudici, il problema non è la durata massima ventennale, bensì il meccanismo di manipolazione del deficit che consente – come già la norma dichiarata costituzionalmente illegittima con la sentenza n. 18/2019 – di sottostimare, attraverso la strumentale tenuta di più disavanzi, l’accantonamento annuale finalizzato al risanamento e, conseguentemente, di peggiorare, anziché migliorare, nel tempo del preteso riequilibrio, il risultato di amministrazione.

Tale meccanismo manipolativo consente, tra l’altro, una dilatazione della spesa corrente – pari alla differenza tra la giusta rata e quella sottostimata – che finisce per incrementare progressivamente l’entità del disavanzo effettivo. Il censurato comma 2-ter autorizza, infatti, gli enti locali che si trovano nella situazione di riproporre il piano di riequilibrio a tenere separati disavanzi di amministrazione ai fini del risanamento e a ricalcolare la quota di accantonamento indipendentemente dall’entità complessiva del deficit. Secondo la Corte, posta l’unicità del risultato di amministrazione, consentire di avere più disavanzi significa, in pratica, permettere di tenere più bilanci consuntivi in perdita.

Da ciò consegue che la gestione del Comune in predissesto, anziché essere strettamente raccordata al piano ritualmente approvato dal Ministero dell’interno e dalla Corte dei Conti, riparte da un quadro incerto e irrazionalmente indeterminato, preclusivo di una serie di operazioni indefettibili per raccordare il nuovo piano di riequilibrio con quello approvato originariamente.

Gli artt. 81 e 97, primo comma, Cost. risultano, dunque, violati perché l’art. 38, comma 2-ter, del DL n. 34/2019 esonera l’ente locale in situazione di predissesto da una serie di operazioni indefettibili per ripristinare l’equilibrio e, in particolare:

  • dall’aggiornamento delle proiezioni di entrata e di spesa,
  • dalla ricognizione delle situazioni creditorie e debitorie,
  • dalla previa definizione degli accordi con i nuovi creditori e con quelli vecchi eventualmente non soddisfatti,
  • dalla ricognizione e dimostrazione della corretta utilizzazione dei prestiti stipulati per adempiere alle pregresse obbligazioni passive.

Viene, altresì, violato l’art. 119, sesto comma, Cost. sotto il profilo dell’equità intergenerazionale, in quanto si consente di utilizzare risorse vincolate al pagamento di debiti pregressi per la spesa corrente, in tal modo allargando la forbice del disavanzo; analoga violazione sussiste sotto il profilo della responsabilità di mandato, in quanto l’ente locale in predissesto viene esonerato dal fornire contezza dei risultati amministrativi succedutisi nel tempo intercorso tra l’approvazione del piano originario e quello rideterminato.

È costante l’orientamento della Corte secondo cui “il bilancio è un “bene pubblico” nel senso che è funzionale a sintetizzare e rendere certe le scelte dell’ente territoriale, sia in ordine all’acquisizione delle entrate, sia alla individuazione degli interventi attuativi delle politiche pubbliche, onere inderogabile per chi è chiamato ad amministrare una determinata collettività ed a sottoporsi al giudizio finale afferente al confronto tra il programmato ed il realizzato” (ex plurimis, sent. n. 184/2016).

È evidente che un consistente lasso temporale, senza neppure specificare da quale bilancio consuntivo e da quale gestione annuale sia stato originato il deficit, interrompe completamente la correlazione tra attività del rappresentante politico e risultati imputati alle collettività amministrate succedentesi nel tempo.